Non chiamarlo amore. La sensibilità di AHRI
L'intervista
Non
chiamarlo amore rappresenta un passaggio fondamentale nella mia scrittura.
Avevo
appena imparato i primi accordi di chitarra quando l’ho scritta.
Ricordo
ancora la difficoltà di sviluppare una melodia e un testo mentre suonavo il
giro armonico, goffa e imprecisa, ma ero fortemente motivata a scrivere una
canzone che trasmettesse un messaggio positivo.
Dopo il
primo EP SEMPLICEMENTE AHRI, fortemente autobiografico, sentivo
la necessità di allargare i miei orizzonti e di mettere le mie esperienza a
servizio degli altri.
Dopo
aver “vomitato” sofferenza e rancore in brani come Tu non eri più, E non
ridere di me e Una nuova alba sentivo di dover raccontare
il seguito. Raccontare che da qualunque situazione negativa si può uscire, con
coraggio e forza di volontà.
Rappresenta
ogni vittima di violenza. Soprattutto psicologica.
Quella
che rimane nelle viscere, quella che toglie ogni autostima, quella che ci rende
deboli e incapaci di reagire.
Peggio,
quella che ci convince di non essere meritevoli di stima e riconoscimento.
Quella
che dura anni, che non si vede, che non ha inizio nè fine e che rimarrà in un
angolo oscuro della nostra personalità per sempre.
Quella
che cambierà in modo radicale la percezione di noi stessi e le relazioni con
gli altri.
E’ un
messaggio universale, anche se ho usato l’immagine femminile, per non perdere
il carattere autobiografico della mia musica.
Vivienne
dovrà allontanarsi, andarsene.
Questo è
il messaggio.
L’ignoto
è il futuro. E’ la rinascita. E’ la vita fuori dalla zona-comfort. E’ la gioia
dopo il dolore.
E’ il
mio pane quotidiano. Da che sono al mondo faccio scelte difficili, impopolari e
incoscienti.
Ed è,
credo, la mia più grande risorsa.
Il primo
per la mia età. E’ difficile cominciare dopo i 40 anni e soprattutto senza
budget alle spalle.
Fare
musica senza avere i fondi necessari per farla bene e per promuoverla è un pò
come comprare una macchina e non potersi permettere assicurazione e benzina.
Rimane in garage.
E alla mia età trovare il proprio target è già estremamente difficile.
Il
secondo in quanto donna, Sembrerà retorica ma la musica vive ancora di preconcetti.
E’ molto
più facile apostrofare un uomo con il termine “cantautore” piuttosto che una
donna, vista quasi sempre come semplice cantante.
Una donna deve essere brava il doppio per essere riconosciuta la metà di un uomo.
Infine,
io non ho studiato musica e negli anni mi sono resa conto di quanto sia
penalizzante dover affidare le proprie creazioni ad altri esecutori.
Per
quanto bravi e formidabili musicisti, nessuno è in grado di riprodurre quello
che si crea nella testa di chi scrive una canzone.
I
millenial sono molto più avanti rispetto alla mia generazione.
Noi
lavoravamo già a 19 anni. E non avevamo dei genitori che investivano sulla
nostra arte.
Peccato.
Perchè io per esempio già a 7 anni sapevo suonare ad orecchio Bach su una
piccola pianola Bontempi.
Ma a
nessuno è venuto in mente che, forse, era il caso di farmi studiare musica :-D
E così,
dopo una vita da impiegata amministrativa, oggi il mio unico sogno è ancora
quello di vivere di musica.
E così, rincorro il tempo perduto.
Partiamo
da quello che mi prende.
Tempo,
sicuramente. Risorse, anche.
Spesso
autostima e fiducia in me stessa. Quando non riesco a raggiungere gli obiettivi
sperati è abbastanza devastante.
Gli
artisti tendono spesso a commettere l’errore di identificarsi in quello che
scrivono.
Risultato:
se la mia musica non “arriva” vuol dire che non è abastanza buona, ergo: io non
valgo abbastanza.
Cosa mi
dà? L’ignoto.
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